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Fiat, la "flessuosità" di Marchionne

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
03.Oct
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EDITORIALE. Serafico come un agnellino del tutto ignaro del banchetto pasquale, Sergio Marchionne ha quest'oggi annunciato l'abbandono di Confindustria, da parte di Fiat, a decorrere dal 1 Gennaio 2012. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: "E' una decisione importante - si legge - che abbiamo valutato con grande serietà e attenzione, alla quale non possiamo sottrarci perché non intendiamo rinunciare a essere protagonisti nello sviluppo industriale del nostro Paese". Ciò avverrebbe nell'ottica di una maggiore competitività dell'azienda sul territorio nazionale e non, allo scopo di rispondere agli stimoli provenienti dal Mercato, senza che sia intaccato alcun diritto o garanzia dei lavoratori.

Tralasciando giudizi di valore sulla bontà o meno della scelta, lo smemorato Amministratore delegato, da sempre poco avvezzo alla memoria fotografica, ha tuttavia omesso di ricordare che il diritto sindacale e del lavoro dell'ultimo ventennio è stato sommerso da provvedimenti improntati al criterio della "flessibilità". Tra tutti, la legge 30/2003, passata ai posteri come "Legge Biagi", in virtù di una squallida operazione di marketing politico che rendesse tale provvedimente legislativo praticamente inattaccabile. Sarebbe stato un oltraggio nei confronti di un martire di Stato.

La flessibilità, dunque, come panacea di tutti i mali del lavoro, dall'occupazione alla produttività. Il solito, irritante, disco stonato che viene messo su ogniqualvolta questo paese affronti una fase di stagflazione o depressione economica. Non ci si è accorti (o forse si, e quindi si è in malafede) che la flessibilità ha incrementato precarizzazione e disoccupazione giovanile, e si è fatto credere che, anzichè esserne la causa, essa fosse la medicina migliore di questi anni. Eppure Fiat non ha mai smesso di incamerare denaro pubblico: dai milioni di ore di Cassa Integrazione che hanno permesso di tagliare i costi del lavoro, sino ai c.d. "Fondi di Sviluppo Regionale" concessi dall'UE e che finora sono stati prevalentemente utilizzati per la costruzione di impianti nell'Est Europeo (Serbia, Polonia) nell'ottica della delocalizzazione del lavoro, cui vanno aggiunti gli sgravi fiscali concessi dall'Unione per tali operazioni.

Infagottato nel suo maglioncino di cachemire, Marchionne invoca "la crescita dell'azienda" e lo "sviluppo del paese" come dogmi irrinunciabili ai quali un'economia deve obbedire. Per l'occasione, annuncia il lancio di un nuovo motore benzina turbo a iniezione diretta per il marchio Alfa Romeo. E lo fa pochi mesi dopo aver candidamente affermato di non avere alcun piano industriale per l'Italia, con Mirafiori destinata a fungere da base per il mero assemblaggio di pezzi Chrysler. Dopo aver esibito, lo scorso Gennaio, un vero e proprio ricatto ai lavoratori di Mirafiori, che in gran numero non hanno chinato il capo, Marchionne sostiene di voler rilanciare l'azienda senza pregiudicare le garanzie sindacali. E contemporaneamente, forte del risultato del referendum di Mirafiori (sul quale, a suo tempo, poggiò tutta la sua linea politica il sempre irsuto PD di Bersani), pone le basi per la sepoltura del contratto collettivo, minacciando di estenderne l'esito anche a Pomigliano e Melfi.

Le privatizzazioni imposte da FMI e Banca centrale Europea hanno, da qualche anno, eroso il vecchio modello socio/economico fondato sul connubio pubblico-privato, ed hanno dato la stura ad una classe politica del tutto soggiogata ai diktat delle multinazionali. Ne fa piena prova il modo con cui Marchionne impose il referendum a Mirafiori, scavalcando le parti politiche e sindacali e bypassando la necessaria, ed obbligatoria, negoziazione col Governo. Niente male, non c'è che dire: l'esempio migliore è sempre quello che proviene da chi invoca il rispetto delle regole, dopo essere stato il primo a calpestarle.
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